sabato 14 febbraio 2009

DUE MODI OPPOSTI DA FARE CALCIO


Una mattina di qualche domenica fa, vicino al mio bar mattutino era parcheggiato un pulmino verde chiaro con i doppi finestrini laterali, posteriori, oblunghi. Mi ha molto meravigliato che un pulmino del “Padova Calcio” fosse lì, in bella mostra, a quella prima ora del mattino. Stavolta non ho la foto, ma vi giuro che sulla sua fiancata era ben stampigliata, da ambo i lati, la scritta “Insieme per vincere”. Mi ha fatto molto pensare, in quanto subito dopo, nel vicino Patronato della parrocchia era invece ben affisso (da tempo: l'avevo già notato) il manifesto altrettanto calcistico: “Io rispetto il mio avversario. Aderisci anche tu!”.

Due modi diversi anzi opposti, di concepire il calcio. Il primo decisamente più agonistico, ma purtroppo incatenato alla logica del professionismo, delle Società nazionali, dei soldi, dei superpremi milionari (miliardari) e della deteriore rubrica domenicale televisiva della bella Ventura, peraltro, ma non affatto simpatica.

Il secondo, calcio dei centri parrocchiali, poveri, ma ricchi di partecipazione e di condivisione. Anche mio figlio vi ha militato (“Lellianum”) circa 20 anni fa ed è stata veramente un’amicizia di quartiere, di condivisione, di partecipazione e di sistematici momenti di festa delle famiglie degli “atleti”. Si celebrava tra l'altro ogni anno, con una buona cenetta, il “Natale dello sportivo” con S. Messa pomeridiana cui seguiva la cenetta, appunto, piuttosto spartana in Patronato. Alla fine c’era sempre e poi sempre l’immancabile distribuzione di sacchettini di fagioli secchi da parte del caro Presidente Sergio R (operatore nel settore delle sementi). Sua moglie ci teneva proprio a preparare, anno dopo anno, il pentolone di pasta e fagioli (sempre fagioli tutti gli anni) ed era abbastanza quello che finiva sulle tavole o per terra.Ma la gioia era assicurata. Vi partecipavano anche alcuni genitori, i più volonterosi che si erano messi a servizio. Essendo il “Lellianum” squadra di parrocchia, ne segue che gli stessi giovani atleti si trovavano nella stessa vicinissima scuola e nelle stesse classi (per le elementari e medie). Ma anche, venuto il salto alle superiori, quasi tutti si iscrissero al vicino Liceo Scientifico “Cornaro”, sempre per restare insieme. Dico, per quelgi anni lì, che la squadra dei giovanissimi (?) era andata “in trasferta” al “Cornaro”. Così, per continuare a restare ancora più insieme e coltivare ancora meglio l’amicizia. E funzionò egregiamente ! Sul piano dell'amicizia, della crescita e delle futura maturità.

Nell’ambito del “Lellianum”, guidato da ottimi dirigenti per i quali il risultato agonistico non era sempre tutto, non ho mai sentito la consueta espressione, rivolta ai “nostri” nei confronti dell’avversario: “Mettilo a terra!” o “Spaccagli una gamba!”. Mancava allora l’esplicito manifesto, forse perché allora (tempi certamente migliori di quelli attuali) per fortuna non se ne ravvisava la necessità.

Credo che oggi, trascinati dal feroce “agonismo” della serie A e suoi derivati, il calcio minore abbia voluto darsi una espressa, formale, regola morale. Che è poi la stessa dei tempi più sopra richiamati. Evviva il calcio c.d. “minore”. Evviva il calcio parrocchiale. Evviva il calcio dell’amicizia...anche con gli “avversari”.


Paolo R.

14.2.09

venerdì 13 febbraio 2009

PER UN PUNTO....PER UNA VIRGOLA


Sugli “assi” delle carte da gioco trevigiane compaiono (forse da secoli) alcuni motti difficilmente oggi ricostruibili: ”Se ti perdi tuo danno”; “Non val saper a chi ha fortuna contra”; “Non ti fidar di me se il cuor ti manca”; ed infine (asso di coppe) “Per un punto Martin perse la cappa”. Sono certamente motti che si perdono nella notte dei tempi e mai forse ce ne siamo chiesti l’esatta origine, né l’esatto significato, pur continuando abitualmente a giocarvi alle carte. Purtroppo.

Vogliamo qui soffermarci solo sull’ultimo di tali motti: PER UN PUNTO MARTIN PERSE LA CAPPA. Detto anche in semplice italiano, non se ne capirebbe proprio l’esatto significato, proprio perché si sorvola del tutto sulla paroletta “cappa”, qui invero del tutto tuttavia strategica. Ci solleva però l’amicissimo Vocabolario Dardano: = “cappuccio, poi mantello...”. Quindi, era proprio ora di scoprirlo. Fra’ Martino non divenne priore (con la cappa, appunto) per una semplice questione di punto (ortografico) che sconvolse però del tutto l’impostazione del motto da egli assunto a suo programma.
Si racconta appunto che il monaco Martino non divenne priore perché sulla porta del convento, volendo scrivere "Porta patens esto nulli claudatur onesto" ossia " ( = Stia aperta la porta, non si chiuda a nessun uomo onesto"), mise un punto dopo la parola "nulli". L'iscrizione divenne perciò:"La porta non si apra per nessuno, si chiuda per l'uomo onesto”.

Fin qui niente male: il suddetto errore appartiene a lingua passata ed a tempi altrettanto passati. Il popolo oggi (specie dopo le più recenti Riforme della Scuola) non ne sa proprio un bel niente di latinorum (come, allora, Renzo nei Promessi Sposi). Ma il fatto linguistico è oggi ancor più grave quando investe proprio gli stessi preti che di cultura generale (e letteraria) dovrebbero saperne abbastanza. Qui però, visto all’oggi, ci riferiamo invece ad una mancata virgola (,) saltata nel manifesto domenicale di poco più di un mese fa e che abbiamo ripreso fedelmente (fotograficamente: vedi foto in alto), affisso proprio alle porte delle Chiese. Secondo me, come è stato stampato, risulta che “...la pace in terra...” è riservata SOLO agli uomini che Dio ama. E agli ALTRI uomini, quelli che Dio NON ama, cosa è invece riservato? NO, secondo il Vangelo Dio ama TUTTI gli uomini. E perché, allora, non mettere una bella virgola tra “uomini” (,) e “che egli ama”?.
Mi pare proprio di avere ragione, dissentendo anche dall’opinione di persone “assai studiate”. Ma in questa società estremamente tecnolocigizzata, si stanno perdendo, dopo i valori, anche le stesse virgole. Così procedendo, perderemo del tutto la nostra personalità. Evviva l’Accademia della Crusca.


Paolo R.

13.2.2009



ti:

lunedì 9 febbraio 2009

DALLA PURIFICAZIONE della VERGINE MARIA ALLA PRESENTAZIONE AL TEMPIO


Otto giorni fa si è celebrata la festa popolare della Candelora ! Sono ancora in tempo a dirvi qualcosa al riguardo ? Ci ho pensato a lungo ed eccomi deciso.

Candelora vuol semplicemente dire festa delle candele, non festa di Maria, come facilmente si sarebbe orientati a credere. Candelora è quindi semplicemente un aggettivo di quella festa. E’ il nome popolare della festa celebrata il 2 febbraio, dovuta all’annessa processione con le candele introdotta da Papa Sergio I (687-701), sulla tracce dell’antica festa pagana, pure con le candele, dei Lupercali, sempre di febbraio, da sempre legati all’espiazione (Februe).

Questa festa, religiosamente, si può considerare o mariologica (fino al Concilio) o cristologica (dopo di esso), potendosi alternativamente prendere in considerazione la contemporanea Purificazione di Maria o la altrettanto contemporanea Presentazione al Tempio di Gesù. Per la prima parte (Purificazione di Maria) ci si rifà all’antica usanza ebraica: una donna era considerata impura per un periodo di 40 giorni dopo il parto di un maschio e doveva (non prima dei 40 giorni, appunto) andare al Tempio per purificarsi (Levitico 12,2-4). Fino ad allora non poteva avere contatti con il sacro. Anche in Italia fino agli 50 si teneva un analogo distacco delle donne partorienti dal sacro. Erano considerate poco meno che immonde !

Ma al Tempio ci si portava anche il primogenito maschio che, secondo la stessa legge giudaica , apparteneva al Signore (vedi il Sacrificio di Isacco) e che dunque andava riscattato con un sacrificio. Come hanno fatto Maria e Giuseppe, sacrificando - poveri com'erano - due colombelle. Iil bambino, poi, venne accolto e benedetto dal vecchio Simeone come “luce del mondo”. Da qui, appunto, la festa delle candele-luce.

Una visione generale ed illustrativa, veramente ben redatta, viene offerta in forma di moderno dizionarietto, dall’opera in foto: Piero Petrosillo, Il cristianesimo dalla A alla Zeta – Lessico della fede cristiana, Edizioni Paoline, 446 pagine,15 euro. Dà uno spaccato sintetico e generale sui vari termini connessi alla religione e lo consiglio vivamente a tutti. Mi ha svelato subito, ad esempio, in poche righe, l‘antinomia solo apparente tra i due aspetti qui considerati.

Ma come, facilmente sapete, sono ricorso anche ad Internet che tuttavia privilegia l’aspetto storico (Februe-febbraio-espiazione). Mi ha poi un po’ deluso, perché non ancora aggiornato il pur per altro ottimo “Dizionario etimologico della lingua italiana” (Cortellazzo-Zolli), della Zanichelli., rimasto ancorato alla tradizione mariologica (Purificazione di Maria). Peccato che il bravissimo professor Manlio Cortellazzo se ne sia andato, novantenne, pochi giorni fa.

Per completezza, riprendo ancora da Internet: “La Candelora, per la sua collocazione all’inizio del mese di febbraio, quando le giornate cominciano visibilmente ad allungarsi, è stata oggetto di detti e proverbi popolari di carattere meteorologico, quale ad esempio, il detto veneziano:

Quando vien la Candelora
de l’inverno sémo fòra,
ma se piove o tira vento,
ne l’inverno semo drénto”

Buona primavera a tutti.

Paolo R.

9 febbraio 2009

mercoledì 4 febbraio 2009

INCOGNITA VOCABOLARIETTI


Vi confesso subito che questo è stato uno degli spot più sofferti. Perché, pur chiedendo lumi a ritta ed a manca, non ho trovato, tranne una sola importante eccezione, riscontro alcuno. Mi riferisco ai microvocabolari con l’italiano (ucraino, albanese, malese-indonesiano, lituano, cinese, croato, ungherese, sloveno, urdu, filippino, curdo ecc.), di dimensioni piuttosto ridotte – quindi più che altro uitili per il più semplice conversare stradale - che già pullulano nelle principali librerie delle città (vedi foto). Ciò naturalmente avviene a seguito degli enormi spostamenti di popolazioni (globalizzazione) e gli editori vi hanno trovato un appetibile bocconcino. Ma queste “opere”, mi sono subito chiesto, che valore linguistico reale avranno ? Il giudizio è piuttosto dubbio, se consideriamo tre elementi essenziali. Primo: la velocità con cui sono state prodotte. Secondo: la lunga “distanza semantica” di quelle lingue con l’italiano. Terzo: la mancanza di precedenti esperienze storiche in quei filoni.

Ho chiesto lumi a Presidi di Liceo, a Professori di Lettere delle Medie: nessuno si è mai posto il problema e non intende porselo nemmeno oggi. Io proprio... al contrario. Finalmente un esimio linguista universitario (letteratura francese) così risponde: “i redattori di quei vocabolari dovrebbero essere dei linguisti. Ma spesso sono solo dei commercianti”. Potrebbero aver però fatto ricorso a lingue “intermedie”, soprattutto inglese e francese (intensa attività colonialistica) E voglio pure riportare ancora il suo illustre pensiero: “Certamente le lingue delle culture più lontane dalla nostra presentano talvolta maggiori difficoltà. Spesso si tratta di tradurre termini che si riferiscono a ‘cose’ che da noi nemmeno esistono”.

Si potrà capitalizzare, per ottenere oggi un buon prodotto linguistico, solo i passaggi con eventuali lingue “intermedie” (basi linguistiche storiche) tradotte nei periodi (secoli) precedenti, attraverso il francese, l’inglese che hanno sempre avuto ricco “interscambio” con l’italiano.

Diversamente, il giudizio non potrà che essere del tutto negativo.



Paolo R.

4,2,2009 I